«Venti anni di rabbia» e il duello Kamala-Donald (2024)

Per capire l’umore dell’America, e quindi la sua campagna elettorale, una possibile chiave di lettura è suggerita da uno studioso italiano di scienze politiche che insegna alla Columbia University e al City College di New York. Lui si chiama Carlo Invernizzi Accetti, ha appena pubblicato in Italia«Vent’anni di rabbia»per Mondadori. Sottotitolo:«Come il risentimento ha preso il posto della politica».

La teoria che propone Invernizzi non si applica solo alla società americana, bensì all’intero Occidente, alla sfera delle liberaldemocrazie. In parte è valida anche per Paesi non democratici, il mondo arabo, il Grande Sud globale. Un elemento fondamentale è questo: più ancora degli interessi economici, la perdita di status spiega molti movimenti di protesta e molti fenomeni politici dirompenti, anti-establishment, che hanno agitato i nostri Paesi dall’inizio del millennio.

A mio avviso questa lettura di Invernizzi si applica anche a certe battaglie valoriali, come quelle che investono i ruoli sessuali, la concezione della famiglia e della sua funzione; o il tema del patriottismo. L’emergere di un personaggio come Donald Trump, con la sua virulenza estrema, con la sua volgarità, con la sua indifferenza verso regole e principi democratici, non si spiega se non si tiene conto che mezza America soffre di sentirsi disprezzata dalle élite, e questa umiliazione pesa ancor più della sua situazione economica oggettiva.

Dai no-global agli anti-vax, da Grillo ai Gilets Jaunes e Brexit

Invernizzi offre un’interpretazione che unisce fenomeni di protesta e mobilitazione molto diversi fra loro: dal movimento no-global d’inizio millennio a quello anti-vax durante la pandemia, passando per il «Vaffanculo Day» di Beppe Grillo, gli Indignados spagnoli, Occupy Wall Street, Brexit, l’elezione di Trump nel 2016, i Gilets Jaunes francesi, #MeToo, Black Lives Matter. Unisce cioè proteste che siamo soliti catalogare come «di destra», «di sinistra», talvolta «populiste» o «qualunquiste». Tutte però hanno in comune una radicalità ideologica, un sentimento anti-sistema. Per alcune di queste non manca la giustificazione economico-sociale. Occupy Wall Street fu una protesta di sinistra scatenata dai salvataggi delle banche americane a spese dei contribuenti, dopo la crisi del 2008, e senza che un solo banchiere venisse processato per i danni inflitti al Paese. I blocchi stradali dei Gilets Jaunes erano provocati da una carbon tax iniqua: penalizzava l’uso dell’automobile danneggiando i pendolari dei ceti mediobassi che non possono permettersi di vivere in centro-città e andare al lavoro in bicicletta.

Invernizzi trova un elemento che unisce ribellioni pur profondamente diverse per i fattori che le scatenarono o per le rivendicazioni che sostenevano. L’elemento è spesso il mancato riconoscimento di status, il fatto di sentirsi considerati come cittadini di serie B, di essere trattati con altezzosità dalle élite e dalla classe dirigente. «La ragione principale di questo ventennio di rabbia – scrive Invernizzi – è un senso diffuso di mancanza di riconoscimento.

Senza negare l’importanza della dimensione economica, è impossibile capire fino in fondo le ragioni della rabbia del nostro tempo prescindendo dalla dimensione simbolica del riconoscimento sociale, cioè dal modo in cui ciascun individuo percepisce di essere percepito dagli altri. La storia della filosofia ha messo in evidenza il bisogno profondo degli esseri umani di essere percepiti come degni di rispetto, cioè portatori di un valore specifico.

Questo bisogno è evidente negli slogan delle principali manifestazioni di rabbia dei primi due decenni del XXI secolo, come per esempio Uno vale uno, Black Lives Matter, America First e Prima gli italiani, ma anche nelle pratiche ricorrenti dei movimenti di protesta di questo periodo, come per esempio l’incendio notturno di veicoli, l’occupazione a oltranza di luoghi pubblici o l’indossare gilet gialli come simbolo distintivo. Ciascuna di queste pratiche tocca il tema della visibilità, cioè appunto della percezione sociale, dei soggetti in questione».

Non dividere la rabbia tra buona e cattiva, progressista o fascista

L’atteggiamento scientifico di Invernizzi gli consente di fare un’operazione che è diventata quasi impossibile oggi, nel clima di conformismo accademico dominante. Evita cioè di dividere i movimenti in buoni e cattivi a seconda delle preferenze e inclinazioni politiche. Non è banale, credetemi. Mettere sotto lo stesso cappello del «ventennio di rabbia» il trumpismo e Black Lives Matter è sacrilegio puro, nell’intellighenzia americana delle due coste in cui si muove l’autore. Il dogmatismo delle élite impone di classificare come sacrosanti i movimenti antirazzisti, femministi, in favore delle minoranze etniche e sessuali, ambientalisti; e catalogare gli altri fenomeni politici del ventennio (Trump, Brexit, Gilets Jaunes, vari movimenti contro l’immigrazione) come populismi retrogradi o peggio, l’anticamera del fascismo.

La sensibilità allo status, al rispetto, al riconoscimento sociale, è cruciale per decifrare due temi essenziali del nostro tempo, che come tali attraversano anche la campagna elettorale americana. Uno è lo slogan America First, l’altro è la questione del «gender» che si è riaffacciata anche alle Olimpiadi di Parigi.

Alle radici del trumpismo: cittadini di status inferiore

America First ha successo perché una parte degli americani, soprattutto i bianchi non laureati, sentono di aver subito un brutale declassamento di status. La loro condizione di vita, le loro sofferenze, le loro aspirazioni, sono passate in secondo piano da quando l’establishment globalista e l’élite progressista hanno deciso che è più nobile occuparsi degli «ultimi», cioè gli immigrati. A loro vengono dedicate attenzioni e riguardi che i bianchi non laureati si vedono negare. Non è un caso se ciò accade.

Da molti anni è invalsa nelle élite – in cerca di espiazione dei propri peccati e privilegi – la narrazione secondo cui se i richiedenti asilo sono poveri e bisognosi, è colpa nostra. Se invece sono poveri e bisognosi coloro che sono nati qui, e hanno il nostro colore della pelle, evidentemente è colpa loro: non hanno saputo approfittare del «privilegio bianco». Trump e il suo vice J.D. Vance si fanno interpreti di questo risentimento. La sinistra intellettuale lo liquida come «razzismo», e così si mette la coscienza a posto. In realtà in molti circoli intellettuali e nella nomenclatura della sinistra di potere l’unico razzismo lecito è quello contro i bianchi non laureati.

Ricordo il sarcasmo di Barack Obama contro quei bianchi che «nella loro amarezza si aggrappano alla Bibbia» (mai avrebbe detto una cosa simile di chi si aggrappa al Corano) o la sprezzante definizione che Hillary diede degli elettori di Trump: «Un mucchio di deplorevoli». Ora, nell’era di Kamala Harris, è di moda definire Trump e Vance «weird», cioè «strani». È chiara l’allusione ai loro elettori, «strani» cioè un mucchio di sfigati bifolchi, come li percepisce l’élite progressista e come li schernisce la narrazione dei film di Hollywood o delle serie tv di Netflix.

Lgbtq+ e il diritto allo hijab nelle università americane

Il tema «gender» si presta a considerazioni analoghe. Una parte della nostra società rimane affezionata a valori tradizionali sul ruolo della famiglia, l’educazione dei figli, le differenze uomo-donna alla nascita. Un’altra parte della società si è convinta che i ruoli sessuali siano modificabili e fluidi, che la famiglia tradizionale sia una gabbia rigida a cui bisogna sfuggire. In una società liberale democratica queste due concezioni dovrebbero poter convivere confrontandosi nel rispetto delle convinzioni di ciascuno. Ma oggi il mondo che conta – i media, la cultura, lo spettacolo – spesso tratta la società «tradizionalista» come un ammasso di bifolchi reazionari, retrogradi, bigotti, sessisti. Delle credenze che erano considerate normali pochi decenni fa, diventano infamanti, vergognose. Eccessi e intemperanze sono evidenti: lo stesso papa Francesco che viene osannato dai progressisti per le sue prese di posizione terzomondiste o sull’Ucraina, è condannato quando ribadisce la dottrina cattolica sulla famiglia. La mancanza di obiettività è lampante. Quando nei campus universitari americani le ragazze arabe pro-Hamas durante le occupazioni pregavano e indossavano il velo, a loro era consentito ciò che non sarebbe mai stato tollerato per la religione cristiana. Lo hijab, simbolo di una subordinazione della donna in tanta parte del mondo islamico (basti pensare alle femministe in carcere in Iran) va «rispettato» come parte di una cultura degli immigrati. Se dei bianchi americani occupassero una università esibendo crocefissi e partecipando a processioni religiose con dei sacerdoti, questo verrebbe condannato come un ritorno al Medioevo.

Il viaggio di Kamala in Africa e i diritti dei gay

Quando Kamala Harris andò in Africa per una visita ufficiale, quel viaggio avvenne all’insegna dei diritti Lgbtq+. Il messaggio più netto che venne percepito dai Paesi visitati era questo: o rispettate i diritti di tutte queste minoranze come lo facciamo noi in America, oppure ne pagherete le conseguenze (perdita di aiuti, minore accesso ai finanziamenti di istituzioni internazionali, possibili sanzioni diplomatiche). Certe posizioni rappresentate dalla Harris in quella circostanza sono ineccepibili, almeno per quanto mi riguarda. Non è accettabile per la nostra coscienza occidentale che un gay possa finire in carcere in Uganda a causa del suo orientamento sessuale. Però a questa affermazione di principio, non derogabile, bisogna subito affiancare alcune considerazioni storiche.

Primo. L’omosessualità era un reato nell’Inghilterra dei Beatles, cioè negli anni Sessanta (non a caso un loro celebre manager visse la propria sessualità gay nel tormento della clandestinità). Dunque se oggi avessimo a che fare con la Gran Bretagna dei Beatles dovremmo troncare i rapporti diplomatici e varare sanzioni. La nostra pretesa che il mondo intero sia sincronizzato con la nostra evoluzione più recente sui diritti umani, è discutibile.

Secondo. Gli africani seguono i media occidentali, sanno ciò che accade nei nostri Paesi. In Africa è noto che in certe scuole pubbliche americane si insegna a bambini pre-pubertà che hanno il diritto di cambiare sesso, senza consultare i genitori. Un messaggio pericoloso, in un’epoca in cui sui social media s’impongono delle celebrity transgender come modelli, e il cambio di sesso rischia di esercitare un’attrazione irresistibile. Nella stessa America è all’opera una censura per silenziare le rivelazioni sui casi di adolescenti che dopo aver cambiato sesso scoprono di avere fatto una scelta sbagliata. Mi permetto di chiamare «lobby» una certa élite transgender perché esercita un potere di pressione smisurato sui media e in certi ambienti politici.

Le minacce di morte contro l’autrice di Harry Potter, J.K. Rowling, una femministra storica demonizzata per aver sostenuto che esistono differenze biologiche alla nascita tra uomo e donna, la dicono lunga sull’intolleranza e il fanatismo di certe minoranze. La resistenza di alcune nazioni africane nei confronti del messaggio di Kamala - oltre che dettata da religioni come l'Islam - può trovare appiglio anche in certi eccessi della woke culture americana. Gli stessi eccessi denunciati da papa Francesco, il pontefice progressista. Perciò, senza avere alcuna simpatia per alcune classi dirigenti oligarchiche e corrotte dell’Africa, osservo che hanno facile gioco a descrivere Kamala Harris e la sua crociata Lgbtq+ come l’equivalente aggiornato della «missione civilizzatrice» che l’Occidente proclamava ai tempi del colonialismo. Siamo sempre intenti a imporre i nostri valori, secondo molti africani.

Suicidio occidentale: cos'è l'inversione normativa (vedi la caduta di Roma)

Torno al tema del ventennio della rabbia. In un libro mio, «Suicidio occidentale», ho citato le tesi di un’autorevole studiosa francese, Chantal Delsol, nel saggio «La fin de la chrétienneté» che traccia un parallelismo tra la nostra epoca attuale e la fine dell’impero romano. Allora, con l’avvento del cristianesimo, si verificò una «inversione normativa»: tutto ciò che prima era proibito diventava lecito e perfino esaltato, tutto ciò che prima era consentito diventava un orribile peccato. L’inversione normativa, nella sua draconiana brutalità, è un’operazione funzionale, tra l’altro, ad affermare il potere di una nuova Chiesa. L’omosessualità, il divorzio e l’aborto erano normali sotto il paganesimo dei romani, divennero peccati per la nuova religione cristiana. Il cristianesimo si considerava una religione superiore, molto più evoluta e moderna. Mise all’indice tutte le credenze dell’antica Roma, con l’intolleranza tipica di chi si considera il Giusto.

Patria, nazione: un valore solo se sei palestinese?

Lo stesso fenomeno ha colpito un altro valore sacro per secoli, il patriottismo. È un dovere sacro sancito dalla Costituzione antifascista della Repubblica italiana, quello di difendere la patria. Eppure tanti che si proclamano antifascisti e brandiscono questa Costituzione, disprezzano chiunque parli di patriottismo come un nazionalista di destra, cripto-fascista, simpatizzante di regimi autoritari.

Nel Nuovo Vangelo delle élite, gli unici che hanno il sacrosanto diritto di essere nazionalisti sono i palestinesi e altri popoli oppressi, noi no. È un altro caso di inversione valoriale e normativa, che cataloga il patriottismo occidentale come una malattia immonda, di cui bisogna vergognarsi e dalla quale si deve guarire. Chi lo pratica viene messo all’indice, per qualcosa che ancora pochi decenni fa era una virtù. Gli viene negato rispetto. E questo scatena risentimento. Se ci rifiutiamo di analizzare questi meccanismi, continueremo ad essere complici, coautori e corresponsabili del ventennio della rabbia, e questo ciclo del risentimento non avrà fine, a prescindere dall’esito del duello Kamala-Donald.

4 agosto 2024, 10:50 - modifica il 4 agosto 2024 | 11:24

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