Elisabetta Sgarbi: «Mi sento editore, non editrice. Inseguii Kureishi di notte. Umberto Eco un po’ mi intimidiva. Il mio rimpianto? Franzen» (2024)

diElvira Serra

La regista:«Litigai con Calasso, non mi parlò per anni. Sono orgogliosa di essere sorella di Vittorio»

Elisabetta Sgarbi: editore o editrice?
«Editore. Mi piace l’idea di riempire di femminile un termine maschile».

Lei però nasce farmacista.
«Per la verità lo sono ancora: sono titolare a Ro Ferrarese della Farmacia Storica Rina e Nino Sgarbi».

Gian Antonio Cibotto è stato fondamentale.
«Entrava a casa nostra con la sua mantella scura, passando per la farmacia, gridando: “Dov’è la mia Ofelia?”. Mio padre si arrabbiava: “Ofelia ha fatto una brutta fine!”. Mi vedeva tristissima. Così cominciò a trascinarmi sulla sua Mini bianca nei teatri del Polesine. Mi introdusse come giurata a vari premi, dall’Estense al Campiello, che aveva fondato. Mi segnalò allo Studio Tesi di Pordenone, una piccola Adelphi diretta da Pierpaolo Benedetto, e poi fece il mio nome a Mario Andreose».

Altro personaggio chiave.
«Al primo colloquio a Milano non mi presentai. Mario chiamò mia madre a Ro, dicendo che era inaudito. Andai al secondo, e lei, per essere sicura, mi accompagnò. Gli chiesi quale sarebbe stato il mio stipendio mensile. Alla sua risposta, gli dissi che il giubbotto che indossavo costava di più. Insomma, feci di tutto per non farmi prendere. Insieme costruimmo una nuova Bompiani».

Il libro che avrebbe voluto pubblicare lei?
«Il giovane Holden».

Il libro letto più volte?
«Storie fantastiche per uomini stanchi, di Max Beerbohm».

Quello che l’ha fatta piangere?
«Le poesie di Kenneth Patchen: Lo stato della nazione. In particolare La scuola all’angolo della strada».

Che ha regalato di più?
«Specchio d’astrologia, di Max Jacob e Claude Valence».

Da cosa riconosce un buon manoscritto?
«Lo leggo ad alta voce».

Quanto sono importanti, oggi, le agenzie letterarie?
«Molto, nella sempre maggiore frammentazione del nostro lavoro».

La classifica premia davvero il libro migliore?
«La classifica indica i libri più comprati in una settimana. Ci sono libri vendutissimi, per anni, che non sono mai entrati nei primi venti. Bisogna guardare le classifiche alla rovescia, cominciare dal centesimo e oltre».

La nave di Teseo è l’anagramma di «Va da sol e tiene». Chi lo formulò?
«Luigi Serafini. Era un anagramma e un buon auspicio. Pochi scommisero su di noi, e invece oggi l’intero gruppo, che comprende Baldini+Castoldi e Linus, fattura circa 35 milioni, con una quota di mercato dell’1,7 per cento».

La nave di Teseo ha vinto un solo Premio Strega.
«La nave di Teseo ha portato sette volte un autore in cinquina, e con Sandro Veronesi lo ha vinto. In nove anni di vita è un risultato importante. Ora Dario Voltolini, con Invernale, è arrivato secondo».

I premi sono importanti?
«Non bisogna sovraccaricarli di responsabilità».

Esiste la competizione?
«Certamente. Litigai con Calasso perché mi portò via Sebald, che avevo pubblicato alla Bompiani, in un modo rapinoso, facendomi scrivere da Andrew Wylie. Lui non mi parlò per anni perché portai alla Bompiani la leggendaria traduzione dei Saggi di Montaigne di Fausta Garavini, una pietra miliare del catalogo Adelphi. Non c’entrano la stima o la simpatia, mai mancate. È recidere il legame che si ha con libri e autori, che genera rabbia e sofferenza».

Un libro che le è sfuggito?
«Le correzioni di Jonathan Franzen, di cui avevo comprato il primo romanzo, Strong Motion. Luigi Bernabò volle darlo all’Einaudi. Ma, sempre con Bernabò, condussi una trattativa difficile per portare tutto Steinbeck a Bompiani, strappandolo a Mondadori».

Da poco ha perso i diritti di «Triste tigre» di Neige Sinno.
«Ma stavamo seguendo il romanzo di JB Andrea, Vegliare su di lei, che poi ha vinto il Goncourt. Un editore ha un catalogo di libri persi: “È l’acquario di quello che manca”, direbbe Enrico Ghezzi».

Quanto è importante il catalogo per una casa editrice?
«È fondamentale. Era il nostro grande timore quando siamo partiti, nove anni fa. Costruirlo e tenerlo vivo sono la cosa più difficile e importante per un editore: è la risorsa prima e la misura di giudizio di una casa editrice».

Lo scrittore che le incute più soggezione, se esiste...
«Umberto Eco. Ero veramente intimidita. Ma non era colpa sua, lui era affettuoso. Sono io che sono timida».

I suoi talent scout?
«Non glielo direi mai. Sono la prima cosa che gli editori si sottraggono l’un l’altro».

Elisabetta Sgarbi: «Mi sento editore, non editrice. Inseguii Kureishi di notte. Umberto Eco un po’ mi intimidiva. Il mio rimpianto? Franzen» (2)

Le è capitato di restare sveglia la notte prima o dopo un incontro importante?
«Dormo pochissimo in genere. Ricordo però quando portai Kureishi alla Bompiani, inseguendolo di notte sulla spiaggia dell’Hotel Excelsior del lido di Venezia; lui era in giuria alla Mostra del Cinema, avrà pensato che ero matta».

I suoi scrittori le chiedono consigli sui farmaci da prendere quando stanno male?
«È capitato: Tondelli, qualche volta Houellebecq. Verdone no: chiedo io a lui».

Una volta mi ha detto: «Ho letto anche i libri che non ho letto». Cosa intendeva?
«L’alchimista di Paulo Coelho l’ho letto dopo averlo acquistato, perché era in portoghese. Ma ci ero entrata, “capendo” nonostante i miei limiti linguistici. La Settologia del Nobel Jon Fosse non esisteva quando la contrattualizzai. L’intuizione editoriale talvolta è più lucida della lettura integrale del testo».

Adesso di Scerbanenco non solo è editrice, ma anche regista. È stato un vantaggio pubblicare prima i suoi libri per costruire la regia del nuovo film, «L’isola degli idealisti»?
«Fondamentale. Non avrei mai potuto girare un noir di Scerbanenco scritto negli anni 60: alla De Leo, per intenderci. È stata la scoperta dello Scerbanenco degli anni ‘40 e ‘50 che mi ha aperto una dimensione diversa, in cui il noir è lo sfondo per il melodramma. L’isola degli idealisti è un film sui progetti impossibili. E io amo i progetti “impossibili”».

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Ha tanti «figli», nati dalla sua creatività, determinazione e capacità generatrice: penso alla Nave di Teseo, alla Milanesiana, ai film. A «chi» tiene di più?
«Non riesco a distinguerli in modo così netto. Per me è tutto un flusso, sono mondi connessi».

Quale edizione della Milanesiana, in questi 25 anni, le è rimasta nel cuore?
«La prima, con Carmelo Bene e Riccardo Muti a chiuderla. E un Houellebecq ancora non così noto».

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Quanta della sua timidezza c’è in quest’ultima edizione?
«C’è tutte le volte che salgo sul palco a presentare gli ospiti. È un dovere, ma che fatica!».

Di tutte le cose che ha fatto, di quale è più orgogliosa?
«Di qualcosa che non ho fatto io: essere figlia dei miei genitori, ed essere sorella di mio fratello».

In quale momento avrebbe voluto che ci fossero ancora i suoi genitori?
«È un argomento doloroso. Sempre. Mi manca mia madre che smitizza i successi e anche gli insuccessi. E mio padre, che guarda con distanza le turbolenze umane».

La cosa più coraggiosa che ha fatto in campo editoriale?
«Lasciare la Bompiani e fondare La nave di Teseo».

L’editore che ha ammirato o ammira di più?
«Molti: io sono una ammiratrice nata. Daniel Keel, Michael Kruger, Roberto Calasso, Carol Janeway, Bernard de Fallois, Jean Claude Fasquelle. Ma la lista è lunga».

Lo scrittore?
«Domanda impossibile».

Quale sarà l’ultimo libro della storia umana?
«I libri non moriranno mai. E ce lo dice Umberto Eco nel suo libro scritto con Jean Claude Carrière: Non sperate di liberarvi dei libri».

5 agosto 2024

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